Voyager 1 e Voyager 2 sono le più lontane e longeve sonde mai lanciate: nonostante l’enorme distanza che ci separa, ogni giorno comunicano con “casa”, inviando i dati scientifici di frontiere inesplorate. Ecco la loro storia. E che cosa possiamo ancora aspettarci da loro.
Illustrazione: la Voyager 1 in rotta verso nuovi orizzonti alla folle velocità di 17 km/s, ossia 61.200 km l’ora!|NASA/JPL-Caltech
«Nessuno di noi poteva immaginare, 40 anni fa, quando abbiamo lanciato le Voyager, il 20 agosto e il 5 settembre 1977, che avrebbero funzionato tanto a lungo, ancora fino a oggi».
A parlare è Ed Stone, scienziato del JPL (Nasa) che ha partecipato fin dall’inizio al Programma Voyager. «E la cosa più emozionante è che ciò che le Voyager ci racconteranno nei prossimi anni sarà probabilmente qualcosa che non sapevamo fosse là fuori, in attesa di essere scoperta.»
Non c’è in effetti alcun dubbio: i record storici di queste due pioniere dello spazio sono già innumerevoli, e dal momento che tuttora funzionano e continuano a viaggiare verso le stelle è facile attendersi nuove meravigliose scoperte.
La Voyager 1, partita il 5 settembre 1977, è al momento l’oggetto costruito dall’uomo più lontano dalla Terra e il primo entrato nello spazio interstellare.
Ha superato da tempo i pianeti e ci sta fornendo informazioni sulle condizioni dello Spazio al di fuori dell’influenza del Sole: i raggi cosmici (particelle cariche di energia che viaggiano quasi alla velocità della luce) sono qui 4 volte superiori che nella regione – dai confini incerti – che identifichiamo come “Sistema Solare”.
Questo significa che l’eliosfera (la bolla di influenza del Sole, con i pianeti e il vento solare) agisce come uno scudo per quelle radiazioni. La sonda ha inoltre rivelato che il campo magnetico interstellare avvolge l’eliosfera.
La Voyager 2, leggermente più lenta, entrerà nello spazio interstellare fra qualche anno. Combinando i suoi dati con quelli della sua gemella, gli scienziati possono ricostruire le interazioni fra mezzo interstellare ed eliosfera.
Questo è possibile grazie ai pochi strumenti ancora in funzione: rilevatori di particelle cariche, di campi magnetici, di onde radio a bassa frequenza e di plasma solare.
La posizione delle gemelle Voyager (clicca sull’immagine per ingrandirla): sono entrambe in una zona che possiamo definire “confine del Sistema Solare”. La Voyager 1, però, si trova già dove il vento cosmico è più intenso di quello solare. Hubble sta analizzando su grande scala quella che sarà la strada che le due sonde percorreranno nel prossimo decennio e oltre, attraversando varie nubi gassose. | Nasa
Planetary Grand Tour. La storia delle Voyager comincia nell’estate del ’65: quando la Mariner 4 era appena diventata la prima sonda ad atterrare su un altro pianeta e, alla facoltà di ingegneria spaziale del Caltech, Gary Flandro era alla ricerca di nuove traiettorie per i pianeti più esterni: Giove, Saturno, Urano, Nettuno… Fino ad allora poco più di puntini luminosi nei telescopi.
Gary scoprì che, una volta ogni 175 anni, un allineamento planetario creava la strada perfetta per portare una sonda ai confini del Sistema Solare facendole sorvolare proprio i pianeti mai visti. Un viaggio di 15 mila volte la distanza fra la Terra e la Luna, lungo qualche decina di anni: il Planetary Grand Tour.
Nell’estate del ’77, mentre i cinema proiettano Star Wars, le due gemelle partono per lo Spazio. Arriveranno a Giove meno di due anni dopo scoprendone gli anelli.
Per la prima volta vennero fotografati dei vulcani attivi al di fuori della Terra: dalla luna Io enormi eruzioni sputano l’interno del satellite nello Spazio, creando una scia di polveri attorno al gigante gassoso.
Poco più di un anno dopo, a velocità mai eguagliate prima (e superate in seguito solo da New Horizon), raggiungono Saturno. Qui la Voyager 1 sorvola Titano, il satellite più simile alla Terra, dove però il ciclo dell’acqua è sostituito dal ciclo del metano: piove metano, su ghiacciai di metano che poi si sciolgono in laghi di metano.
I giganti di ghiaccio. Mentre Voyager 1 punta direttamente verso lo spazio interstellare, il viaggio della Voyager 2 nel Sistema Solare prosegue fino all’incontro con Urano (1986) e Nettuno (1989), due giganti freddi di cui si è scoperto più in quelle poche ore di sorvolo che in secoli di osservazioni da Terra.
Entrambi hanno mostrato un debole sistema di anelli e nuove lune, ma fotografare i pianeti non fu facile: la luce solare era troppo fioca e la velocità della sonda troppo elevata per mantenere semplicemente l’obiettivo aperto. Inoltre, la Voyager non poteva essere manovrata da Terra: fra l’invio e la ricezione del comando sarebbero passate più di 3 ore.
Fu quindi messo a punto un software di puntamento automatico in grado di fare ruotare la navicella (progettata e costruita negli stessi anni del floppy disk, per chi si ricorda ancora che cos’è…) mentre scattava le foto.
Un’opera monumentale. Fino all’incontro con Nettuno il Progetto Voyager nel suo complesso, tra tecnici, scienziati e impiegati che lo hanno reso possibile, ha richiesto qualcosa come 11 mila anni di lavoro, un terzo del tempo-uomo stimato per la costruzione della Grande Piramide di Ghiza, la più grande e antica testimonianza del nostro passato.
Forse, il primo ad avere sognato le Voyager è stato guidato non solo dalla curiosità per l’inesplorato, ma anche dallo spirito che ha mosso i faraoni.
Oltre alle fotocamere e agli spettrometri, sulle sonde è stato caricato un disco d’oro: un messaggio “per chiunque” trovi una delle sonde.
L’involucro è placcato con uranio-238, un isotopo radioattivo dell’uranio che decade in miliardi di anni: analizzandolo, chiunque abbia le conoscenze adeguate può scoprire l’età del disco (e della sonda).
Su di esso è incisa una mappa di quasar per triangolare la posizione del Sistema Solare e le istruzioni per leggere il disco. Nel disco ci sono immagini, video e suoni della Terra: vagiti e risate, panorami e fenomeni atmosferici, saluti in 55 lingue, brani musicali e il discorso di Jimmy Carter. L’allora presidente degli Stati Uniti conclude così il messaggio lanciato nel buio:
Pale blue dot. Nel 1990 l’astronomo Carl Sagan (l’uomo che ride nel disco d’oro) ha chiesto che la Voyager 1 fosse orientata un’ultima volta verso di noi, per scattare una foto di ogni pianeta.
Da 6 miliardi di km di distanza la Terra è un pallido puntino blu immerso nel buio cosmico, senza un significato evidente.
Da nessuno, per nessuno. Adesso, mentre una Voyager si allontana Sistema Solare, la luce del Sole si affievolisce e prima o poi verrà superata dalla luminosità della stella Sirio.
La sonda ha percorso 40 dei 356 mila anni che le serviranno per coprire gli 8,6 anni luce che ci separano da Sirio.
C’è un problema: nonostante tutti gli studi e i trucchi adottati per rendere più efficiente l’elettronica degli anni ’70, alle sonde rimangono poco più di 10 anni di vita. Secondo gli scienziati che le seguono, l’ultimo componente scientifico funzionante non riceverà più l’energia che gli serve nel 2030.
Dopodiché, silenziose e senza più alcuna possibilità di contatto con la Terra, continueranno nel loro viaggio. Non sappiamo se il “messaggio in bottiglia” verrà mai trovato da qualcuno, ma qualsiasi cosa dovesse succedere al piccolo e fragile puntino blu, un ricordo di noi e del nostro pianeta continuerà a viaggiare nel Cosmo.[fonte]