Gilbert Levin ideò 40 anni fa il test per trovare vita aliena: “Ora Nasa ed Esa preparano nuovi esperimenti sul pianeta”
Li abbiamo già scoperti, ma non ce ne siamo accorti. E quando abbiamo ricontrollato le prove, non abbiamo voluto credere ai nostri occhi. Gilbert Levin è convinto che i microrganismi marziani ci stanno prendendo per il naso da 40 anni e che ci vorrà tempo perché i pezzi del più grande thriller scientifico di sempre vadano al loro posto. Ma su Marte – dice – la vita c’è. Eccome.
Levin è l’uomo che ha ideato uno degli esperimenti a bordo dei «Viking», le due sonde della Nasa che proprio 40 anni fa, nell’estate 1976, realizzarono una missione storica, ancora oggi iconica, e da cui sono sbocciate tutte quelle successive. Oggi Levin ha 92 anni splendidamente portati ed è l’ultimo sopravvissuto di una generazione di ingegneri geniali. Professore emerito alla Arizona State University, progettista di farmaci e di tecniche d’analisi microbiche, non smette di immaginare il futuro prossimo, quando l’uomo metterà piede sul Piante Rosso.
Professor Levin, il suo test, noto come «Labeled Release», torna in primo piano in occasione dell’anniversario di «Viking», con tutto il suo carico di sorprese e controversie: ce lo racconta?
«L’esperimento “Lr” era basato su un procedimento simile a quello usato per il controllo dell’acqua potabile e al quale, credo, si ricorre anche in Italia. Un piccolo campione d’acqua viene iniettato in una provetta di liquido nutriente: se ci sono dei microrganismi, questi metabolizzano i nutrienti stessi e sprigionano bolle di gas che rappresentano la prova che della contaminazione microbica».
«Viking» fece lo stesso?
«Al terreno marziano ha aggiunto solo più nutrienti, nella speranza che almeno uno di questi venisse metabolizzato, e li ha contrassegnati con il carbonio radioattivo, così da rendere i gas liberati più facili da individuare».
E che cosa accadde?
«Quando a una minuscola porzione di terreno del pianeta venne iniettata del nutriente radioattivo, si notò che subito venivano emessi dei gas. Il processo si verificò con grande rapidità per i primi tre giorni e poi, più lentamente, nel corso dei successivi quattro dell’esperimento. Questo risultato, da solo, sarebbe considerato una prova dell’esistenza di microrganismi viventi da parte di qualunque ente sanitario. Tuttavia, volendo essere più cauti, aggiungemmo un ulteriore elemento di controllo».
Quale elemento?
«Approvato dalla Nasa, prevedeva di riscaldare un altro campione a 160° per tre ore. Era un trattamento in grado di uccidere qualunque microrganismo presente, ma tale da non distruggere i possibili agenti chimici alla base del responso positivo. Applicammo quindi questo controllo cruciale e risultò negativo, soddisfacendo così i criteri per l’individuazione della vita».
Però c’è un «ma», giusto?
«Sebbene sul “Viking” ci fossero tre apparati per la ricerca della vita, il test “Lr” è stato l’unico a dare una risposta positiva dal punto di vista biologico. Nel selezionare i test, tuttavia, la Nasa aveva spiegato che erano tutti diversi tra loro e che, se ci fosse stata vita su Marte, sarebbe stato sufficiente l’esito favorevole di uno solo. Mentre il nostro esperimento utilizzava l’acqua, gli altri non la prevedevano».
Conferma, quindi, che, secondo lei, su Marte esiste la vita?
«In realtà non arrivai alla conclusione che “Viking” avesse rilevato forme di vita fino a 10 anni dopo l’esperimento. Avvenne grazie al lungo lavoro di laboratorio che condussi con la collega Patricia Straat, cercando di riprodurre i risultati ottenuti su Marte con una serie di sostanze chimiche e con i raggi ultravioletti. Poi, dopo altri sette anni di ulteriori studi e di scoperte, come quelle sui batteri estremofili terrestri, sono arrivato alla conclusione che il test “Lr” abbia davvero individuato attività microbica sul suolo marziano. Successivamente, a sostegno del test di “Viking”, sono arrivati nuovi dati dalla sonda “Phoenix” e dai rover “Pathfinder” e “Curiosity”, oltre che dalle osservazioni condotte da Terra: tutti hanno individuato tracce di metano su Marte».
Tra chi sostiene l’attendibilità della scoperta del «Viking», c’è Giorgio Bianciardi, studioso all’Università di Siena di sistemi caotici applicati alla biologia: che tipo di collaborazione avete sviluppato?
«Giorgio ha fornito un approccio indipendente, che ha confermato i dati sulla presenza di vita. E così lui, l’astrobiologo Barry Di Gregorio e io, insieme con altri, abbiamo proposto di far condurre al rover “Curiosity” uno specifico studio sulle rocce marziane. Sebbene la Nasa avesse respinto in un primo tempo l’idea, lo studio è iniziato solo nel maggio 2016. La proposta era cercare prove visive e chimiche della presenza di microrganismi endolitici, simili a quelli che si sviluppano nelle rocce dell’Antartide. Al momento, però, la Nasa non ha reso noto alcun risultato».
Quindi, è solo questione di tempo prima di un clamoroso annuncio ufficiale?
«Sono sicuro che ci sia vita su Marte. Deve essersi adattata per colonizzare il pianeta, proprio come è avvenuto sulla Terra. Mi sorprendono quegli scienziati che non credono che Darwin funzioni anche su Marte!».
La missione europea «ExoMars 2020» invierà un rover su Marte, dedicato alla ricerca di vita. Si aspetta nuovi risultati?
«Penso che sia “Curiosity” sia il nuovo rover troveranno prove di molecole organiche».
Ritiene che l’uomo poserà presto il piede su Marte?
«Prima di inviare uomini su Marte dobbiamo capire se là la vita presenta forme patogene. Dobbiamo scoprire se è come la nostra o se è differente, avendo seguito un’altra genesi. Ho proposto una versione modificata del test “Lr” per appurarlo, ma il suggerimento non è stato accolto. Se ci rendessimo conto che le forme di vita su Marte e sulla Terra sono sostanzialmente diverse, ciò significherebbe che l’Universo è pieno di vita: sarebbe una conclusione dalle enormi conseguenze. Scientifiche e filosofiche».[fonte]