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I. La domanda sulla vita extraterrestre: un approccio interdisciplinare

Prof. Giuseppe Tanzella-nitti Ordinario di Teologia fondamentale, Pontificia Università della Santa Croce, Roma,

Direttore del Centro di Ricerca DISF, già ricercatore CNR (Bologna) e astronomo (Torino).

L’osservazione del cielo stellato ha sempre suscitato molti interrogativi. La domanda sulla possibilità che altri pianeti ospitino forme di vita simili a quelle che si sono sviluppate sulla terra è stata forse una delle più comuni.

Tuttavia, sotto il profilo storico, l’interrogativo sulla presenza della vita nel cosmo pare sorgere in un contesto diverso da quello delle grandi questioni sull’origine e sul tutto che caratterizzano il “problema cosmologico” (DIO, I.1).

Se è vero che già le antiche teogonie predisponevano a riconoscere la presenza di divinità antropomorfe in regioni diverse dalla terra (CIELO, I), il tema della pluralità dei mondi e della loro abitabilità acquista vigore solo in concomitanza di nuove visioni speculative o di nuove scoperte che mutano la comprensione del posto dell’uomo nell’universo.

Tematica tradizionalmente non centrale per il pensiero filosofico, il suo ingresso nell’ambito delle scienze naturali, e più recentemente in quello della tecnologia spaziale, ha influenzato vari settori della cultura (letteratura, costume, cinema), reclamando una ricaduta significativa anche in ambito religioso e teologico. Valutata in prospettiva storica, l’idea di ipotizzare la vita su mondi diversi dalla terra attraversa la cultura umana dall’epoca classica fino ai nostri giorni.

Considerata nella sua oggettività, la possibilità di trovare forme di vita su altri pianeti e, soprattutto, quella di entrare in contatto comunicativo con intelligenze extraterrestri, rappresenterebbe senza dubbio una delle esperienze più straordinarie di tutta la storia dell’umanità.

1. Un breve sguardo storico.

Al dibattito storico sulla molteplicità dei mondi abitati sono state dedicate ampie monografie (cfr. Crowe, 1988; Dick, 1982 e 1996; sguardi riassuntivi in Crowe, 1997 e Dick, 1993). I primi ad ipotizzarne l’esistenza furono probabilmente gli atomisti, all’interno di una visione filosofica meccanicista che assegnava all’infinito numero di atomi del cosmo la capacità di dare origine ad una infinità di corpi in una pluralità di combinazioni possibili, anche al di fuori della terra. Con Epicuro (341-270 a.C.), e poi soprattutto con Lucrezio (99-55 a.C.), si va affermando una sorta di “principio di pienezza”, secondo il quale tutte le potenzialità della materia sarebbero destinate prima o poi a realizzarsi, dando origine ad un mondo tanto più perfetto quanto maggiore è la ricchezza di esistenti che esso contiene. La domanda sulla possibile esistenza di abitanti sulla luna – intuitivamente la più diretta e spontanea data la prossimità e la grandezza apparente del nostro satellite – la si ritrova in vari autori classici, fra cui Plutarco (45-125).

Nella sua opera De facie quae in orbe Lunae apparet, lo scrittore greco presenta un dibattito a più voci sull’origine delle macchie (chiaroscuri) che appaiono sulla superficie lunare, all’interno di un piccolo trattato di cosmologia filosofica sulle differenze fra le proprietà della terra e quelle della luna. Il pensiero filosofico che si rifà ad Aristotele (384-322 a.C.) troverà maggiore difficoltà a speculare sulla presenza di abitanti su altri mondi, in quanto la sfera celeste viene progressivamente contrassegnata con i caratteri dell’eternità, dell’immutabilità e dell’incorruttibilità, radicalmente distinta dall’ambiente terrestre (il cosiddetto mondo sublunare), cui appartengono invece il cambiamento e la contingenza; la sfera della luna, nella quale anche l’uomo percepisce qualche mutazione, resterà a metà strada fra le due.

In epoca medievale il cristianesimo non si opporrà all’idea che Dio possa creare altri mondi, anche più perfetti del nostro (PLURALITÀ DEI MONDI, I), ma il tema non avrà attinenza diretta con la loro possibile popolazione. Nella cosmologia de La dotta ignoranza, Nicola Cusano (1401-1464) farà allusione a possibili abitanti di altri mondi (che egli collocava ingenuamente sulle stelle), per sistematizzare dal punto di vista filosofico quali relazioni tali mondi avrebbero con la terra e con le sue perfezioni, e che rapporto ci sarebbe fra la natura dei loro abitanti e la nostra natura intellettuale.

Con una riflessione che sarebbe ancor oggi condivisibile da molti nostri contemporanei, il cardinale filosofo concludeva che, nonostante tutto, non possiamo saperne nulla di simili comparazioni: “Gli abitanti delle altre stelle, quali che siano, non hanno nessuna proporzione con gli abitanti del nostro mondo, anche se la loro regione intera è in una occulta proporzione con la nostra, per la finalità dell’universo […].

Ma, siccome questa regione ci resta sconosciuta, ci restano completamente sconosciuti anche i suoi abitanti” (lib. II, c. 12). Interprete rinascimentale del “principio di pienezza”, Giordano Bruno (1548-1600) ipotizzò la presenza di una vita diffusa in tutto l’universo, non solo sotto forma di abitanti delle stelle e dei pianeti, ma anche sotto forma di principio vitalista capace di assicurare un’anima alle stelle, ai pianeti, alle comete e all’intero universo. Galileo (1564-1642) e Keplero (1571-1630) non affrontarono mai il tema in modo diretto, ma percepiscono che il sistema eliocentrico poneva la terra in una condizione di maggiore analogia con gli altri pianeti solari. Ambedue si chiederanno, come prima Plutarco e non senza ironia, se le macchie regolari visibili sulla superficie della luna, potevano essere l’opera dei suoi abitanti intelligenti (cfr. C. Sinigaglia, Lo “scherzo” di Plutarco e il “sogno” di Keplero, in Colombo et al., 1999, pp. 155-168).

A partire dalla fine del XVII secolo, con l’affermarsi del telescopio ottico come strumento scientifico di osservazione astronomica, capace di rivelare un’immensa quantità di stelle invisibili ad occhio nudo, si potrà assistere ad una rinascita di interesse per la tematica della vita nell’universo. Ne saranno prova la rapida diffusione di opere a favore della pluralità dei mondi abitati. Così l’opera di Bernard le Bovier de Fontenelle (1657-1757), Entretiens sur la pluralité des mondes (1686), che conoscerà dozzine di edizioni e traduzioni in nove lingue, e quella postuma di Christian Huygens (1629-1695), Kosmotheoros, sive de terris coelestibus earumque ornatu conjecturae (1698), anch’essa subito tradotta in cinque lingue.

Col passare del tempo, saranno soprattutto gli astronomi, maggiormente a contatto con il progressivo allargamento di orizzonti recato dall’osservazione del cosmo, a pubblicare opere concernenti la possibilità di forme di vita al di fuori dei confini della terra. Prima William Herschel (1738-1822), noto per avere avviato i primi studi sistematici sulla distribuzione spaziale delle stelle e sulla forma della via Lattea, poi Richard Proctor (Other Worlds Than Ours. The Plurality of Worlds studied under the Light of Recent Scientific Researches, New York 1871) e soprattutto Camille Flammarion (La pluralité des mondes habités, Paris 1862), contribuirono a tenere aperto il dibattito anche in ambiente scientifico per tutto il XIX secolo. L’opera di quest’ultimo conobbe una diffusione straordinaria: con oltre 30 edizioni in meno di vent’anni, fu ristampata poi ininterrottamente fino al 1921.

Sarà ancora un astronomo, l’italiano Giovanni Schiaparelli (1835-1910), a suscitare l’interesse sulla possibilità di vita intelligente sul pianeta Marte dopo le sue famose osservazioni dei “canali” (1877), strutture regolari sulla superficie del pianeta sulle quali già Padre Angelo Secchi (1818-1878), astronomo gesuita, aveva attirato l’attenzione. All’opera di Schiaparelli, recentemente rieditata con il titolo La vita sul pianeta Marte. Tre scritti su Marte e i marziani (Milano, 1998), si affiancarono quelle analoghe di Proctor e di Flammarion, dando origine ad un fenomeno culturale e di costume che terminò identificando con il termine “marziani” gli abitatori generici di altri mondi. All’interno del dibattito a cavallo fra il XIX e il XX secolo, va ricordata anche la posizione di un non astronomo, Alfred R. Wallace (1823-1913). Naturalista ed originale propugnatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, Wallace preparò una vigorosa difesa di un universo antropocentrico nella sua opera Man’s Place in the Universe. A Study of the Results of Scientific Research in Relation to the Unity or Plurality of Worlds (1903). Anche questo saggio, per le sue caratteristiche di contraltare alla posizione pluralista e per l’ambiente scientifico dal quale proveniva, conobbe una grande diffusione, fornendo un certo numero di argomenti ai difensori dell’unicità della vita umana nel cosmo.
In epoca contemporanea, i progressi della radioastronomia e l’avvio dell’astronautica, unitamente all’immagine fisica di un universo di insospettate dimensioni spazio-temporali, hanno contribuito ad offrire una visione del posto dell’uomo nel cosmo che spinge con naturalezza verso l’interrogativo sulla possibilità di vita intelligente extraterrestre. Anche in questo caso, opere divulgative di alcuni scienziati hanno esercitato una grandissima influenza, come avvenuto per i testi di H. Shapley, Of Stars and Men (Boston, 1958) e di Shklovskii e Sagan, Intelligent Life in the Universe (San Francisco, 1966); ma l’interesse generale per la tematica è stato sostenuto soprattutto da altri fenomeni, come la letteratura di fantascienza ed il cinema.

In campo specificamente scientifico, l’entusiasmo del XIX secolo su un possibile incontro “ravvicinato” con abitanti del sistema solare è stato sostituito dalla metodica ricerca di forme di vita elementari o di materiale pre-biotico in ambienti a noi prossimi (sistema solare) e dall’avvio di programmi a lunga scadenza nel campo dell’ascolto radioastronomico per gli ambienti più remoti (vedi infra, II, nn. 2 e 3). Allo stesso tempo, non si è persa l’opportunità di inviare alcuni “messaggi in bottiglia”: una placca con riproduzione di una coppia umana ed alcuni dati scientifici in codice collocata sulle sonde automatiche Pioneer 10 e 11 (lanciate nel 1971), le prime ad avventurarsi oltre il sistema solare; immagini e suoni digitalizzati del pianeta terra sugli analoghi Voyager (1977); una trasmissione via radio in codice binario inviata dal radiotelescopio di Arecibo (1974) verso un ammasso globulare galattico.

2. Gli aspetti interdisciplinari del dibattito.

Il tema della vita del cosmo viene consegnato alla cultura odierna dalle scienze, non dalla filosofia, ma vi giunge quasi esclusivamente attraverso la mediazione dei mezzi di comunicazione, della letteratura di diverso genere e di alcune espressioni artistiche (sulla valenza interdisciplinare del dibattito, cfr. ad es. la raccolta di saggi a cura di R. Colombo et al., L’intelligenza dell’universo, 1999). Basti pensare all’influenza delle novelle di fantascienza di H.G. Wells, autore de La Guerra dei mondi (1898), i cui soggetti continuarono ad ispirare ad un secolo di distanza i films Star Wars (1977) di Lucas, o alla diffusione dei romanzi di Isaac Asimov, anch’essi riprodotti sullo schermo.

Ma vi sono anche altre forme d’ispirazione, come quelle raccolte dai romanzi di C.S. Lewis nella sua Trilogia di Ransom (1938-1944), anche nota come Perelandra, ove la visita a mondi diversi dal nostro suscita i temi della virtù e del peccato, della libertà della redenzione, della diversità delle creature e della dipendenza da un comune Creatore. Il grande interrogativo sul significato della vita umana nell’universo ed il suo rapporto con la trascendenza sarà uno dei temi centrali di 2001 Odissea nello spazio (1968), scritto da Arthur C. Clarke e diretto da Stanley Kubrick (CINEMA, I).

La peculiarità del soggetto – la vita oltre i confini della terra – costituisce un inevitabile luogo di confluenza ove si riversano in modo talvolta inconscio, altre volte esplicito, i grandi temi dell’antropologia, della filosofia e della religione. Le implicazioni di un possibile contatto con altre forme di vita intelligente vengono da tutti, anche dal grande pubblico, facilmente percepite. Se ne desidererebbe trarre informazioni sul futuro riservato alla specie umana, sulle leggi che governano l’universo fisico, alcune delle quali potrebbero essere a noi sconosciute, sull’origine e sulla diffusione della vita, sulla sua sopravvivenza in un’era tecnologica. Ma l’uomo comune certamente desidera indirizzare a civiltà diverse dalla propria anche l’interrogativo sul significato della vita cosciente, sulla loro conoscenza di un Creatore, sull’esistenza di Dio.

La valenza umanistica del tema la si riscontra anche notando che il contesto spaziale (o “celeste” se si preferisce) consente in molte opere della letteratura, dell’arte e del cinema, impliciti riferimenti ai grandi miti cosmici della lotta fra la luce e le tenebre, fra il bene e il male; permette di riproporre l’intervento di mediatori provenienti da mondi lontani, la consegna di messaggi morali che ridestino negli umani quelle domande esistenziali che l’ordinaria vita terrestre aveva fatto assopire. Altre volte, l’idea di un possibile rapporto con civiltà diverse dalla nostra, offre un interessante luogo concettuale in cui il genere umano torna ad autocomprendersi. E non di rado vi riscopre la sua unità di origine e di fine, spintovi dalla difesa di fronte a pericoli cosmici o dalla necessità di coordinare un comportamento efficace su scala planetaria.

Come intelligentemente messo in luce da Paul Davies (1994), nella ricerca di vita extraterrestre è nascosta un’implicita dimensione religiosa, che si riversa in un preciso genere letterario, avente come finalità un’esplorazione della spiritualità umana in rapporto all’incontro con “l’altro”. Ne riportiamo volentieri le conclusioni: “Il potente tema degli alieni che agiscono da condotto per risalire alla Causa Prima, che compaia nella narrativa o in una teoria cosmologica intesa seriamente, tocca corde profonde della psiche umana. L’elemento di attrazione sembra essere il fatto che contattando esseri superiori provenienti dal cielo gli uomini potranno avere accesso ad una conoscenza privilegiata, e che l’ampliamento dei nostri orizzonti risultante da essa in qualche modo ci avvicinerà di più a Dio. La ricerca degli alieni può quindi essere vista come parte di una ricerca religiosa che è sempre esistita, oltre che parte di un progetto scientifico. Questo non dovrebbe sorprenderci. La scienza è nata dalla teologia, e tutti gli scienziati, siano essi atei o teisti, e che credano o meno all’esistenza di esseri alieni, accettano una visione del mondo essenzialmente teologica” (p. 144).

Orbene, proprio la risonanza religiosa appena messa in luce rivela un’ultima importante dimensione interdisciplinare del dibattito: quella dei rapporti con la teologia. La teologia cristiana, in modo particolare, ne verrebbe maggiormente coinvolta a motivo di quel suo “registro di unicità” che sembra regolare i rapporti fra Dio e l’uomo, il cui apice viene raggiunto nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio fatto uomo. Allargare l’orizzonte fino a considerare degli esseri intelligenti diversi dal genere umano, potrebbe così divenire l’ultima possibile conseguenza di una sorta di “principio copernicano” che avrebbe spodestato l’uomo prima dal centro geometrico dell’universo conosciuto, poi dall’unicità della sua storia biologica sulla terra ed infine dalla sua centralità cosciente nel panorama del cosmo. Sebbene la teologia non vi abbia dedicato una speciale riflessione, essa possiede delle risorse per affrontare la tematica, ma l’idea generale condivisa dal grande pubblico è che un simile contatto porrebbe in crisi alcuni importanti princìpi dell’establishment religioso. Se non si può obbligare la teologia a dar ragione di tutto quanto appartiene alla “sfera dei possibili”, resta il fatto che un suo discorso su Dio e sull’uomo, se svolto nel contesto scientifico contemporaneo, non può non tener conto di almeno alcuni degli interrogativi che la presenza di vita extraterrestre susciterebbe (SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA).

II. La ricerca della vita extraterrestre nel contesto delle scienze

All’analisi del nostro tema all’interno delle scienze occorre premettere un importante chiarimento. Il dibattito circa la veridicità e l’origine extraterrestre di oggetti volanti non identificati (UFO, Unidentified Flying Objects) non rientra nell’oggetto di ciò che le scienze intendono quando parlano di vita extraterrestre (ETL, Extra Terrestrial Life ed ETI, Extra Terrestrial Intelligence) ed esula anche dalla prospettiva interdisciplinare da noi qui adottata. Inoltre l’impossibilità di disporre pubblicamente di dati scientificamente accertati non ci permetterebbe di trattare l’argomento con il dovuto rigore, perciò, in questa sede, preferiamo accantonarne l’esame.

1. Il fenomeno della vita nel quadro dell’evoluzione cosmica.

Noi non sappiamo se la vita rappresenti un evento unico nella storia del cosmo, verificatosi solo su questo remoto pianeta di una delle 1011 stelle in una delle 1011 o 1012 galassie che popolerebbero il nostro universo, o se sia al contrario un fenomeno piuttosto diffuso. Sappiamo certamente che la sua comparsa ha richiesto una serie incredibile di tappe e di condizioni previe, nello spazio e nel tempo, la cui considerazione non può essere elusa quando si desidera valutarne la possibile diffusione su scala cosmica. Non siamo neanche in grado di comprendere se l’insieme di tutte quelle delicate condizioni debba essere considerato come un evento altamente improbabile oppure come una sorta di imperativo cosmico, legato all’azione di un processo o di una legge che ne guidino inevitabilmente i vari passaggi (cfr. De Duve, 1995).

Non sappiamo, in sostanza, se si tratta di un fenomeno universale e quasi inevitabile, che si riproduca ovunque le condizioni lo permettano, come suggeriscono Christian de Duve o Manfred Eigen, oppure se essa equivalga ad un mero numero probabilistico, uscito per caso alla roulette dell’evoluzione cosmica, un fenomeno che non risponda ad alcun significato, neanche immanente alle leggi cosmiche, come laconicamente sancito da Jacques Monod e Steven Weinberg. Sotto il profilo filosofico esiste però il presentimento che la ricchezza della sua complessa fenomenologia, la teleologia dei suoi processi, nonché la sua assoluta singolarità rispetto alla materia inorganica, impongano di valutare l’incidenza ed il possibile significato della vita con categorie che superino la scarna alternativa fra caso e necessità (BIOLOGIA, V).

Lasciando per il momento da parte quel complesso di condizioni fisico-chimiche che collegano le condizioni necessarie alla formazione di ambienti adatti alla vita con i valori numerici delle costanti di natura che regolano e determinano la struttura stessa dell’universo nel suo insieme – condizioni critiche abitualmente discusse all’interno del Principio Antropico – può essere utile riepilogare qui brevemente alcune fra le principali tappe che precedono necessariamente ogni possibile comparsa della vita nel cosmo.

Innanzitutto non va dimenticato che per contare sulla presenza di elementi necessari alla vita, come ad esempio l’ossigeno, il carbonio o il potassio, occorre attendere almeno una o forse due generazioni di stelle massicce perché, al termine della loro evoluzione termodinamica e termonucleare, i prodotti delle loro esplosioni come Supernovae rendano disponibili nello spazio cosmico un’adeguata abbondanza di simili elementi. È in questo ambiente arricchito – l’universo comincia infatti la sua evoluzione composto quasi essenzialmente di idrogeno con una piccola frazione di elio – che dovranno poi formarsi quegli altri tipi di stelle, più stabili e di lunga evoluzione, come il nostro sole, le uniche con una vita media sufficientemente lunga (almeno alcuni miliardi di anni), che consentano ad eventuali pianeti che vi ruotano attorno di poter contare su una continuità energetica lungo tutto il tempo necessario alla lenta evoluzione da forme di vita assai semplici a quelle più complesse.

La massa di pianeti candidati ad ospitare una biosfera, dovrà poi essere sufficientemente grande da trattenere gravitazionalmente un’atmosfera gassosa, ma anche sufficientemente piccola da raffreddarsi in un tempo ragionevolmente breve. Pianeti con una massa come quella di Giove o Saturno, ad esempio, pur essendo coevi alla terra (circa 4,6 miliardi di anni), non hanno ancora concluso il loro raffreddamento e non presentano ancora una superficie solida. La distanza dalla stella centrale dovrà poi essere ottimale, affinché un pianeta riceva da essa una quantità necessaria, ma non eccessiva, di calore. La stella non dovrebbe poi appartenere ad alcun sistema stellare binario o multiplo (la cui incidenza è statisticamente assai alta), allo scopo di garantire una sufficiente stabilità alle orbite planetarie. Ma anche l’evoluzione della vita su un pianeta adatto ad ospitarla ha i suoi tempi di crescita.

A parte il tempo necessario per la formazione dei composti chimici indispensabili alla vita, come acqua, numerosi composti del carbonio e dell’ossigeno e, appena possibile, quella di un’atmosfera, occorre anche attendere la paziente diffusione delle forme di vita più semplici, che contribuiranno anch’esse, con i prodotti dei loro processi biochimici, a rifornire la biosfera con sostanze necessarie alla vita delle forme superiori ed organicamente più complesse. Sappiamo che sulla terra il tempo trascorso dalla formazione dei primi microrganismi alla comparsa dei mammiferi non è stato inferiore a tre miliardi di anni. Se pensiamo poi che il tempo che separa oggi l’universo dalle sue primissime fasi di altissima densità e temperatura è certamente non inferiore a 10 miliardi di anni, dovremmo dire che, molto probabilmente, un tempo sensibilmente inferiore non sarebbe stato sufficiente per avere in alcun luogo del cosmo delle forme di vita simili a quelle che oggi conosciamo sulla terra.

Un tentativo di formalizzare almeno alcune delle precedenti condizioni, allo scopo di stimare quale possibilità vi sarebbe di entrare in comunicazione (plausibilmente via radio) con altre forme di vita intelligente, almeno all’interno della nostra galassia, fu quello suggerito da Drake nel 1961.

L’impiego di quella che sarà poi nota come “equazione di Drake”, concerne il computo di una serie di probabilità restrittive, che vengono fra loro moltiplicate allo scopo di valutare il numero N di civiltà potenzialmente in comunicazione. Nella formula proposta, N = R* fp ne fl fi fc L, con R* si indica la rapidità (rate) di formazione di stelle centrali con proprietà energetiche adeguate, fp indica la frazione di esse che potrebbe avervi associati dei pianeti, ne il numero di essi con condizioni simili a quelle della terra, fl , fi ed fc le frazioni che misurano su quanti di essi potrebbero svilupparsi, rispettivamente, la vita, la vita intelligente e la vita intelligente a livello di civiltà tecnologica. L’ultimo fattore, L, regola la “vita media” di una civiltà tecnologica su un pianeta. Le stime di N sono, come prevedibile, assai diverse. Al valore approssimativo N = 100.000, secondo il computo proposto originariamente da Drake, altri oppongono un valore di circa 100, sebbene non manchino studiosi di opinione assai diversa, per i quali ci sarebbe solo una civiltà tecnologicamente sviluppata ed attiva ogni 300 galassie (cfr. F.Drake,)

Nuove prospettive per la Galassia, in R. Colombo et al. 1999, pp. 118-127; J. Oró, Vincoli per lo sviluppo della vita intelligente, in ibidem, pp. 83-107; le stime più critiche sono di Rood e Trefil, Are We Alone?, New York 1981).

Come opportunamente messo in luce da alcuni autori (cfr. McMullin, 1980, pp. 83-84), il principale limite di equazioni di questo tipo è che noi non abbiamo un modello realistico capace di descrivere in modo soddisfacente quei processi le cui frazioni di probabilità di occorrenza vengono computate. Per conoscere ad esempio quale frazione di stelle potrebbe avere dei pianeti simili alla terra, dovremmo avere un preciso modello di formazione di pianeti da nubi stellari, con parametri che descrivano le varie caratteristiche dei pianeti formati, in modo da selezionare quanti sono quelli giusti, cosa che oggi non possediamo. Le cose si complicano se pensiamo che conosciamo assai meno del perché si origini su un pianeta la vita e tanto meno la vita intelligente, e dunque non abbiamo alcun modello realistico per valutare se questo debba accadere un certo numero di volte o nessuna. La logica di una teoria statistica, come ad esempio la teoria cinetica dei gas, è quella di fondarsi sulla conoscenza di processi noti, ad esempio quelli che regolano il moto di una particella, e dedurne così un comportamento medio su larga scala. Una teoria statistica sulla formazione di pianeti con biosfere, ma soprattutto sulla formazione della vita, non è rigorosamente possibile; e ciò sia perché non conosciamo le modalità di questi processi con un sufficiente grado di accuratezza, sia perché abbiamo in natura un unico evento conosciuto, noi terrestri, per la cui presenza non siamo in grado di distinguere con sicurezza cosa sia necessario e cosa potrebbe non esserlo.

È inevitabile che le discipline scientifiche che si accostano al tema della vita nell’universo lo facciano cercando di utilizzare quelle deduzioni che possono sembrare ragionevoli, legate alle conoscenze che abbiamo del cosmo e dei suoi ambienti. Allo stesso tempo, riteniamo che in un tema come questo sarà sempre l’induzione, insieme alla pazienza dell’attesa e della scoperta, l’atteggiamento metodologicamente più fondato.

2. I progetti scientifici sulla ricerca della vita.

La scienza contemporanea affronta il tema della vita nel cosmo in vari contesti tematici (visioni di insieme in alcuni recenti Colloqui: cfr. Papagiannis, 1985; Shostak, 1995; Batalli Cosmovici et al., 1997; saggi in lingua italiana in Colombo et al., 1999). Essi riguardano la ricerca e lo studio di composti organici o di possibili strutture biologiche, eventualmente presenti nello spazio interstellare o sulla superficie di corpi celesti (comete, asteroidi, satelliti o pianeti) adeguati ad ospitarle; la ricerca di qualche forma almeno elementare di vita in luoghi particolarmente adatti del nostro sistema solare; l’individuazione e lo studio di altri sistemi planetari, simili a quello solare, formatisi attorno ad altre stelle; la ricostruzione teorica e sperimentale dei processi che possono aver dato origine alla vita sulla terra, in ordine ad una migliore comprensione di tali meccanismi su scala cosmica; ed infine la ricerca di possibili segnali radio di origine intelligente mediante l’impiego di radiotelescopi parzialmente o totalmente dedicati allo scandaglio del cielo nelle onde centimetriche e decimetriche. L’insieme di tutte queste attività ha fatto sì che nel panorama scientifico si affermasse una nuova disciplina, chiamata “bioastronomia” o anche “esobiologia”, alla quale la comunità astronomica internazionale ha dedicato a partire dal 1982 uno status ufficiale all’interno dei suoi organismi internazionali (si tratta della Commissione 51 della International Astronomical Union).

In prospettiva storica, il primo ingresso ufficiale del tema della vita extraterrestre in un ambiente strettamente scientifico risaliva già alla seconda metà del XIX secolo, all’epoca delle osservazioni dei “canali di Marte” realizzate da Schiaparelli. A partire dall’agosto del 1877, la loro possibile origine intelligente fu oggetto di disputa in tutto il mondo per circa un trentennio. Le misteriose immagini furono poi riconosciute come strutture naturali grazie all’impiego di strumenti di osservazione dotati di un maggiore potere risolutivo. Il pianeta “rosso”, sul quale già Herschel aveva indicato due calotte polari ritenendole formate di ghiaccio d’acqua (ma che oggi sappiamo formate di anidride carbonica allo stato solido), è rimasto praticamente fino ai nostri giorni un potenziale candidato per la presenza di qualche forma elementare di vita.

Subito dopo l’avvio dell’era astronautica, Marte è divenuto ben presto obiettivo di missioni spaziali, prima con sonde in volo ravvicinato (Mariner, 1964-1971), poi con atterraggi morbidi sulla sua superficie (Viking nel 1976), ed infine con percorsi di ricognizione da parte di sonde automatiche semoventi (Pathfinder nel 1997). Sia le sonde Viking che la missione Pathfinder hanno realizzato esperimenti finalizzati a verificare l’esistenza di possibili forme di vita, riportandone un esito negativo. La prima decade del terzo millennio sarà ancora protagonista di più perfezionate missioni spaziali, sia europee (Mars Express, lancio previsto nel 2003), sia statunitensi (varie missioni con rientro sulla terra di materiale da analizzare, a partire dal 2003-2004), preludio di una futura probabile missione umana.

Le osservazioni compiute nelle ultime decadi del XX secolo tendono ad escludere la possibilità di forme di vita, specie di tipo complesso, sui pianeti del sistema solare, a motivo delle proibitive condizioni chimico-fisiche presenti nei loro inviluppi atmosferici o sulla loro superficie. L’interesse degli studiosi si è così spostato su alcuni satelliti massicci. Immagini ottenute già negli anni 70 e 80 alle sonde Pioneer e Voyager e, più recentemente, dalla sonda Galileo, hanno attirato l’attenzione dei ricercatori su alcuni satelliti di Giove e di Saturno, in modo particolare Europa, in orbita attorno a Giove, sul quale è stata scoperta la presenza di acqua, ed Encelado e Titano, in orbita attorno a Saturno, dalle caratteristiche morfologiche assai interessanti. Verso quest’ultimo sta viaggiando attualmente la sonda Cassini-Huygens, lanciata nel 1997, il cui arrivo nei pressi di Titano è previsto per l’anno 2004.

Grazie allo sviluppo della tecnologia osservativa da terra, ma soprattutto grazie all’impiego di strumenti in orbita come il telescopio spaziale Hubble (COSMO, OSSERVAZIONE DEL, II-III), sono stati identificati negli ultimi anni circa una quarantina di sistemi composti da una stella circondata da uno o più pianeti. I pianeti finora scoperti hanno delle masse comparabili o molto superiori a quella di Giove, la maggior parte dei quali sono troppo vicini alla stella centrale, e pertanto risulterebbero inadatti alla vita (cfr. Doyle et al., 2000). Va comunque tenuto presente che le attuali possibilità osservative tendono a selezionare solo i pianeti più massicci e soltanto grazie a tecnologie di nuova generazione, come quella del Next Generation Space Telescope che sarà operativo in orbita entro il 2010, si potranno probabilmente individuare pianeti di massa piccola o intermedia, compiendo misure che offrano maggiori informazioni sulla possibilità che tali corpi ospitino una chimica adatta alla vita.

Dal punto di visto teorico vi sono indicazioni che la formazione di pianeti attorno a stelle debba essere un fenomeno relativamente frequente, sebbene siano piuttosto restrittive, come abbiamo già visto, le caratteristiche fisiche che li renderebbero adatti ad ospitare la vita.

Ad essere oggetto della contemporanea bioastronomia non sono solo pianeti o satelliti, ma anche corpi assai più piccoli, come asteroidi e comete e, in genere, le vaste regioni dello spazio interstellare. Con osservazioni nelle frequenze radio e con spettroscopia infrarossa è stato possibile scoprire la presenza di oltre un centinaio di diversi tipi di molecole nello spazio interstellare, fra le quali acqua, monossido e biossido di carbonio, ammoniaca, metanolo, formaldeide, vari composti del carbonio, del silicio e dell’azoto, ma anche un certo numero di amminoacidi. Molte di queste molecole, alcune delle quali sono state rinvenute direttamente su residui meteorici oppure osservate su comete, sono identiche a quelle che caratterizzano la chimica degli organismi viventi e suscitano dunque la domanda sul loro possibile ruolo in processi pre-biotici o, anche, sulla loro possibile origine da processi biologici già in atto. Attualmente, però, neanche nel vasto ambiente dello spazio interstellare esiste alcuna osservazione di acidi nucleici o di altre strutture biochimiche di origine cellulare che facciano pensare alla presenza di microrganismi.

In definitiva, nonostante l’assenza di risultati che abbiano finora mostrato delle tracce di vita, passata o presente, in ambienti diversi da quello del nostro pianeta, dobbiamo riconoscere che siamo certamente di fronte ad un nuovo modo di considerare la vita da parte dell’attività scientifica, che ne fissa cioè le coordinate, per la prima volta, su dimensioni cosmiche e non più solo terrestri.

3. La ricerca di Intelligenze Extraterrestri.

Un discorso a parte nel panorama del rapporto fra attività scientifica e ricerca di vita extraterrestre lo richiede il programma SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence). L’idea di dedicare radiotelescopi all’ascolto di possibili segnali intelligenti provenienti da ambienti esterni al sistema solare nasce dal suggerimento di Cocconi e Morrison (1959) i quali, agli albori della radioastronomia, mostravano la possibilità teorica di ricevere dallo spazio, con i nostri strumenti terrestri e anche a grandissime distanze, delle densità di flusso elettromagnetico paragonabili a quelle che noi, sulla terra, emettiamo quando trasmettiamo degli ordinari programmi via radio.

Gli autori consigliavano tuttavia di cominciare l’ascolto a frequenze adiacenti alla riga di emissione dell’idrogeno neutro a 21 cm (1420 MHz), che poteva essere facilmente scelta come punto di riferimento da altre civiltà tecnologiche, data la sua intensità e diffusione in tutto il cosmo.

Una eco di un possibile contatto via radio con civiltà extraterrestri la si ebbe nell’opinione pubblica nel 1967, quando Burnell e Hewish scoprirono la prima pulsar. In attesa che Goldreich e Julian mostrassero definitivamente nel 1969 che tali segnali regolari ed intermittenti venivano prodotti da stelle di neutroni in rapida rotazione, per qualche tempo alcuni ritennero possibile una loro origine intelligente, dando scherzosamente a questi segnali il qualificativo di little green men (piccoli uomini verdi).

Ma già a partire dal 1961, un progressivo coinvolgimento di ricercatori e di strumenti aveva gradatamente condotto alla formazione del SETI Institute, oggi costituito con progetti e ricercatori propri, che opera in collegamento sia con la NASA, sia con alcuni fra i maggiori centri di radioastronomia del pianeta (documentazione e informazioni all’indirizzo www.seti-inst.edu). In Italia, collabora da qualche anno con le ricerche SETI anche l’Istituto di Radioastronomia del CNR con i suoi radiotelescopi operativi a Medicina (Bologna). Ai fini di una discussione interdisciplinare, è significativa anche la presenza del Seti Academy Committee, un Comitato della Accademia Internazionale di Astronautica (IAA) che, in collaborazione con altre istituzioni scientifiche, dedica parte della sua attività allo studio della ricaduta sociale e culturale di un possibile contatto con altre civiltà e alla preparazione di possibili protocolli di comunicazione. Sono state definite già da tempo alcune procedure internazionali che prevedono conferme indipendenti, organismi da informare ed alcune priorità da seguire, nel caso si verificasse un evento di questo genere.

La motivazione che sostiene simili ricerche – oltre agli aspetti filosofici precedentemente segnalati – si basa su un’interpretazione ottimista dell’equazione di Drake e sul fatto che, col semplice procedere del tempo, aumenta proporzionalmente al cubo della distanza il volume di spazio nel quale viaggiano i segnali radio terrestri, e dunque aumenta anche la probabilità di ricevere possibili risposte. Le onde radio di produzione terrestre hanno fino a questo momento raggiunto le stelle (ed i possibili sistemi planetari ad esse associati) entro un raggio di circa 70-80 anni luce, facendoci per il momento concludere che all’interno di una distanza di circa 30 o 40 anni luce dal sole non esistono civiltà extraterrestri, o comunque, se esistono, esse non sono in grado o non hanno forse l’intenzione di rispondere ai nostri segnali. Va anche ricordato in proposito che nel 1974 il grande radiotelescopio di Arecibo (Portorico) fu esplicitamente utilizzato per inviare, nella direzione dell’ammasso globulare M13, un messaggio radio di 1679 bits in codice binario, decodificabili in una immagine in bianco e nero contenente informazioni sulla terra e sulla biologia umana.

Sono allo studio per le prime decadi del XXI secolo progetti di radiotelescopi interferometri in orbita attorno alla terra o sulla faccia nascosta della luna (in ombra cioè dai segnali di origine terrestre), allo scopo di aumentare il potere risolutivo e la sensibilità della ricezione di possibili segnali intelligenti extraterrestri.
Per i più ottimisti, come il radioastronomo Ron Bracewell (1982), fra le tante civiltà tecnologiche che popolerebbero l’universo sarebbe in atto già da tempo una rete comunicativa, una sorta di Club delle Galassie, del quale gli umani dovrebbero entrare quanto prima a far parte. Ma all’ipotesi che la presenza di civiltà avanzate possa essere un evento assai diffuso è stato spesso obiettato che finora, né nel presente né in un passato storico, vi sono stati contatti con esse. Se nella nostra galassia ve ne fossero un milione, esse sarebbero separate dalla distanza di circa 100 anni luce l’una dall’altra.

Storicamente conosciuto come “Paradosso di Fermi” – dal fatto che fu il fisico italiano, quasi per gioco, durante un pranzo a Los Alamos a fare per la prima volta nel 1950 questo tipo di conti – questo problema viene spesso indicato in via colloquiale con l’interrogativo where are they? (dove solo “loro”?). Le risposte proposte sono state varie. Si va dal suggerimento che tali contatti sarebbero già avvenuti in epoche nelle quali gli umani non erano ancora in grado di apprezzarli, al fatto che vi sarebbe una certa resistenza ad instaurare tali rapporti a causa dell’enorme differenza tecnologica o perfino culturale nei nostri confronti, differenza che potrebbe anche giustificare una sorta di “trasparenza” della loro presenza in mezzo a noi. Le variabili del problema, molte delle quali certamente extra scientifiche, sono però tali da considerare il paradosso di Fermi un utile avvertimento ma non un argomento apodittico. Considerazioni analoghe a quelle di Fermi, corredate da opportune soluzioni, erano state fatte già attorno al 1930 da Kostantin Tsiolkovsky (1857-1935), all’interno di un clima filosofico noto come pancosmismo russo (cfr. V. Lytkin et al., Tsiolkovsky, Russian Cosmism and Extraterrestrial Intelligence, “Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society” 36 (1995), pp. 369-376).

III. Il dibattito in ambito religioso e teologico

Il tema della presenza di vita, in particolare di altre creature intelligenti, in ambienti diversi da quello terrestre, non ha mai costituito uno speciale terreno di speculazione teologica, né esistono insegnamenti del magistero ecclesiale in proposito. La sacra Scrittura, come osservato, pur presentando l’azione di Dio ed i suoi rapporti con l’umanità in un contesto certamente cosmico, non ne fa menzione. Una pagina del vangelo di Giovanni, che alcuni autori amano citare come una possibile eccezione: “e ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge ed un solo pastore (Gv 10,16)”, resta certamente suggestiva, ma non offre in realtà alcuna seria base di discussione esegetica in tal senso. I riferimenti ad alcuni precedenti, storici o di dibattito teologico, non possono essere pertanto che frammentari. Riepiloghi delle principali posizioni possono trovarsi in Grasso (1952), Perego (1958), Dick (1996), Crowe (1997) e nei saggi di Coyne e Dick raccolti nel volume collettivo curato sa Steven Dick (2000).

1. Cenni storici ai rapporti col pensiero cristiano.

Uno dei primi dati disponibili risale ad una lettera di Papa Zaccaria (741-752), nella quale si menziona che un presbitero Virgilio stava insegnando una dottrina sulla pluralità di mondi abitati. Zaccaria riprova l’idea che vi siano abitanti agli antipodi, sulla luna o sul sole (quod alius mundus et alii homines sub terra sint, seu sol et luna: cfr. Epistola XI ad Bonifacium, PL: 89, 946-947). Il motivo dottrinale che soggiace ad un simile richiamo è semplicemente quello di non introdurre elementi di novità che, ponendo in discussione l’unità del genere umano, renderebbero più complesso comprendere in che rapporti con Dio e con il peccato originale stessero quegli uomini che non fossero discendenti di Adamo ( CREAZIONE, II).

Allo scopo di proteggere la libertà e l’onnipotenza del Creatore, il vescovo di Parigi E. Tempier condannò nel 1277 la proposizione di tradizione aristotelica secondo la quale la Causa Prima non potesse aver creato molti mondi, non menzionando però nulla dei loro possibili abitanti. Alcuni anni prima, alla questione se esistessero molti mondi, Tommaso d’Aquino (1224-1274) aveva dato risposta nella Summa theologiae dicendo che ne esisteva uno solo (cfr. I, q. 47, a. 3). Ma il dibattito medievale sulla molteplicità dei mondi non era direttamente utilizzabile per conoscere quale fosse la posizione della teologia nei confronti della vita extraterrestre. Il concetto di “molti mondi” non equivaleva infatti a ciò che noi intendiamo oggi quando parliamo di diversi pianeti, eventualmente abitati. L’unità del mondo si riferiva piuttosto all’unità dell’ Universo. Nel pensiero di Tommaso e di altri medievali, essa discendeva dall’unità del suo Creatore e dall’unità della sua causalità finale esercitata su tutto ciò che esiste. Nella citata quaestio, l’Aquinate associa infatti l’idea di una pluralità dei mondi ai fautori del caso i quali, come Democrito, negavano una sapienza ordinatrice. Il monito di Tempier, nel quale il concetto di mundus non coincideva totalmente con l’uso fattone da Tommaso, intendeva essere solo un correttivo di carattere accademico, piuttosto che un intervento ecclesiale in senso stretto, allo scopo di mantenere inalterati i caratteri del Creatore, e ciò non tanto nella sfera del reale, quanto in quella del possibile.

Il dibattito attorno al sistema eliocentrico non ebbe ripercussioni ufficiali sul nostro tema. Alcuni ecclesiastici, manifestando in questo una loro opinione personale, ritennero che ribassare la terra alla stregua degli altri pianeti avrebbe potuto condurre alcuni spiriti innovatori a spingersi ancor più in là, fino ad ammettere anche in quelli degli abitanti, con le conseguenze che già aveva intravisto papa Zaccaria nel secolo VIII. Lo manifestano così una lettera dell’abate Giovanni Ciampoli inviata a Galileo il 28 febbraio 1615 (cfr. Galileo, Opere, a cura di A. Favaro, Firenze 1968, vol. XII, p. 146) ed una lettera inviata a Pierre Gassendi (1592-1655) dall’abate Le Cazre (cfr. P. Gassendi, Opere, Lione 1658, vol. VI, p. 451). Tutto il secolo XVII risulta caratterizzato da un generale atteggiamento di prudenza, come dimostra anche il fatto che il libro di Fontenelle, Entretiens sur la pluralité des monds fu inizialmente inserito, nel 1687, nell’Indice dei libri proibiti.

Nel XVIII secolo il clima teologico pare cambiare. Non si offrono soluzioni per risolvere o inquadrare i problemi dogmatici che la vita extraterrestre porrebbe alla cristianità, ma il tema viene visto con maggiore apertura e senza speciali timori, sottolineando in primo luogo la grandezza del Creatore e l’insondabilità dei suoi piani sull’intero universo. L’apologetica inglese di tradizione anglicana offrirà in proposito una cerniera di raccordo inserendo la possibilità di vita extraterrestre nella sua teologia naturale (W. Derham, Astro-theology, London 1714). Maggiormente significativa sarà però la reazione che molti autori cristiani avranno nei confronti di un’opera di Thomas Paine (1737-1809), The Age of Reason (1793), la quale propugnerà per la prima volta, e in modo diretto, una radicale incompatibilità fra la religione cristiana e l’esistenza di vita intelligente extraterrestre, la cui scoperta, secondo Paine, condurrebbe inevitabilmente a sconfessarla. “Dovremo forse ammettere – affermava ironicamente – che ogni mondo in una illimitata creazione avrebbe un’Eva, una mela, un serpente ed un redentore? In tal caso, la persona che sarebbe irriverentemente chiamata Figlio di Dio, e talvolta Dio stesso, non potrebbe fare altra cosa se non viaggiare da un mondo all’altro ripetendovi una successione continua di morti, con a malapena qualche breve intervallo di vita” (The Age of Reason, New York 1961, p. 283). Non solo la critica di Paine non sarà condivisa da astronomi sinceramente credenti e favorevoli ad un’ipotesi pluralista come furono T. Wright, J. Lambert e lo stesso William Herschel, ma susciterà opere di teologi che intenderanno confutarne le tesi, come in Scozia T. Chalmers (Astronomical Discourses, 1817) e negli Stati Uniti T. Dwight (Theology Explained and Defended in a Series of Sermons, 1818). Ad essi si assocerà anche lo studioso scozzese T. Dick (The Christian Philosopher, 1823).

A favore dell’ipotesi di una pluralità di mondi abitati si schiererà apertamente nel XIX secolo l’opera teologica di Joseph Pohle I mondi stellari ed i loro abitanti (Die Sternenwelten und ihre Bewohner, Köln 1884), rieditata più volte per circa un ventennio. Essendo l’universo fisico così esteso ed essendo il fine della creazione dare gloria a Dio, se ne deduce che tale gloria debba essere tributata da tanti esseri intelligenti disseminati per il cosmo e che, a differenza degli angeli che sono solo spirituali, mantengano una relazione con l’universo materiale, come potrebbero essere appunto gli abitatori di altri pianeti. Una eco di questa conclusione la si ritroverà ancora nel più diffuso manuale di teologia della metà del XX secolo (cfr. M. Schmaus, Katolische Dogmatik, München 1957, vol. II, n. 109). La posizione di Pohle sarà condivisa da vari scienziati suoi contemporanei, fra cui gli italiani Angelo Secchi e Francesco Denza, sacerdoti ed astronomi (SECCHI, III).

2. Alcune posizioni teologiche.

La letteratura teologica odierna, come già osservato, non dedica speciale attenzione al nostro tema. Nella manualistica sono presenti fugaci richiami, solitamente nella linea di una prudente apertura ad una eventualità che, in fin dei conti, resta sempre un evento fattuale e non una deduzione teorica. Nella seconda parte del XX secolo, oltre ai citati articoli di Grasso (1952) e di Perego (1958), vanno registrati gli interventi di Davis (1960) e Zubek (1961). Dedicano attenzione al tema nelle loro opere E. Milne (Modern Cosmology and the Christian Idea of God, Oxford 1952), E. Mascall (Christian Theology and the Natural Science, London 1956) e soprattutto K. Delano (Many Worlds, One God, New York 1977). Paul Tillich lamenterà l’assenza di una riflessione in tal senso in campo teologico (cfr. Systematic Theology, vol. II, Chicago 1957, pp. 95-96). Lo stesso Teilhard de Chardin, per quanto sappiamo, vi dedicherà solo un breve saggio (La multiplicité des mondes habités, 1953), al quale aggiungerà una ancor più breve, ma interessante, postilla. Oggigiorno il tema delle implicazioni teologiche della vita nel cosmo resta oggetto di conferenze e dibattiti, specie nei circoli intellettuali interessati ai rapporti fra scienza e fede, non senza una certa ricaduta sull’opinione pubblica, ma non è finora sfociato in lavori di particolare maturità scientifica.

Il punto di partenza della maggior parte delle riflessioni teologiche resta in fondo sempre quello di Pohle: la grandezza e la gloria del Creatore sono compatibili con il dono della vita e della vita intelligente nel cosmo, anche in numerosi ambienti diversi dalla terra, sebbene non conosciamo quali siano i piani di Dio per queste creature. Subito dopo si offre un chiarimento, rintracciabile già in tutte le opere degli autori che rispondevano alla critica di Paine: la redenzione dal peccato originale riguarda il genere umano e non può essere trasposta nella vita di altre creature. La stessa considerazione era stata offerta secoli prima dal francescano Guglielmo de Vorillon (1390-1463), e costituisce in fondo solo una prima approssimazione al problema (cfr. G. McColley, W. Miller, St. Bonaventure, Francis Mayron, William Vorilong and the Doctrine of a Plurality of Worlds, “Speculum” 12 (1937), pp. 386-389).

Ma alcuni autori si spingono più in là. Secondo Mascall non vi sarebbero difficoltà ad ammettere la possibilità di varie unioni ipostatiche ove ciò fosse ritenuto opportuno dalla volontà salvifica universale di Dio. Milne suggerisce che l’unicità dell’Incarnazione potrebbe essere compatibile col fatto che le comunicazioni radio fra una civiltà e l’altra divengano il veicolo per informare altre creature intelligenti della storia della salvezza realizzata da Dio in favore dei terrestri, estendendo loro una sorta di “informazione redentiva”, capace di muovere alla gratitudine o anche alla fede verso Dio.

La posizione di Kenneth Delano, interprete di una prospettiva cattolica, si distingue per una notevole flessibilità. Dopo aver ricordato la convenienza di associare alla grandezza di Dio un creato assai più ricco di quanto si possa a prima vista immaginare, segnala la necessità di una genuina umiltà nei confronti della trascendenza dei piani divini, che deve condurre ad evitare atteggiamenti geocentrici o antropocentrici, rispettando il silenzio della Scrittura sul tema della pluralità delle creature intelligenti nell’universo. Si sostiene che ciascuna delle tre Persone divine potrebbe incarnarsi in qualsivoglia pianeta, non ponendo alcuna limitazione ad ogni possibile storia di rivelazione e di salvezza.

Tale posizione sarebbe da preferirsi, secondo questo autore, ad una sorta di teoria di un “Adamo cosmico”, nella quale il singolo atto redentivo di Cristo sulla terra sarebbe applicabile all’intero universo, sebbene tale pluralismo redentivo non impedisca, sempre secondo il nostro autore, di diffondere ad altri esseri intelligenti il messaggio evangelico e l’amore avuto da Dio nei nostri confronti. Riteniamo che le posizioni di Mascall e di Delano circa la possibile molteplicità dell’incarnazione del Figlio o di altre Persone divine, finiscano però col distanziarsi, come vedremo, da una comprensione cristiana della Rivelazione.

Se le precedenti considerazioni sottolineano la necessaria flessibilità da mantenere in un tema come questo, la posizione di Charles Davis (1960) pare in proposito maggiormente definita. Partendo dal dato biblico della centralità cosmica di Cristo nei confronti dell’intero universo materiale e della sua capitalità su tutte le creature, incluso quelle angeliche, ne conclude che la posizione teologicamente più corretta dovrebbe essere mantenere l’unicità dell’unione ipostatica (assunzione della natura umana da parte della persona divina del Figlio), avvenuta una sola volta e solo nel contesto dell’economia salvifica terrestre (GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LOGOS). Il privilegio che ne deriverebbe per la natura umana non sarebbe espressione di antropocentrismo, ma conseguenza di un coerente cristocentrismo.

Se la centralità di Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, sul cosmo e sulla storia fosse un mero effetto dell’orizzonte geocentrico presente nei modi di esprimersi della Scrittura, la maggior parte della nostra comprensione teologica della creazione e dei nostri rapporti con Dio in Cristo ne verrebbe inevitabilmente stravolta. Lasciare inalterata la comprensione della capitalità di Cristo, Dio-uomo, in “senso forte” vuol dire invece continuare a credere che l’incarnazione del Verbo costituisca la maggiore comunicazione di Dio alla creazione, considerarla ancora tale sullo sfondo di tutte le altre possibili creature, ed assumersene le corrispondenti responsabilità. Un universo dove, al contrario, fossero possibili molte incarnazioni del Verbo, non sarebbe più un universo cristocentrico.

Se questo accadesse come fatto riconosciuto, se ne dovrebbe concludere che la nostra comprensione della Rivelazione è stata finora largamente imprecisa ed ambigua. Il pensiero di Teilhard de Chardin condivide la comprensione della centralità di Cristo in senso forte, ma ne sottolinea nel contempo l’azione di una terza natura “cosmica”, lasciando a questa e non alla natura umana del Verbo, il compito di ricapitolare in Lui tutta la creazione e tutti gli esseri che vi partecipano (cfr. La multiplicité des mondes habités, in “Oeuvres”, Paris 1969, vol. X, p. 282). Teilhard può così superare l’ostacolo dell’antropocentrismo, ma introduce un elemento estraneo al dogma cristologico, che insegna invece la presenza di solo due nature, umana e divina, nella persona increata del Verbo (cfr. DH 300-303).

IV. Teologia cristiana e Intelligenze Extraterrestri: alcune piste di comprensione

Affrontare il tema della possibilità di una vita intelligente di origine extraterrestre, al di fuori cioè di quell’esperienza di unità del genere umano comune a tutto il messaggio biblico, riteniamo rappresenti per la teologia cristiana uno dei maggiori sforzi speculativi in senso assoluto. Non deve pertanto sorprendere che molti interrogativi saranno forse destinati a restare aperti. L’unica analogia disponibile è lo studio del rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni della terra, disciplina relativamente giovane, di importanza crescente in un’epoca di globalizzazione (INFORMAZIONE, VII).

Lo studio di questo rapporto fornisce senza dubbio delle direttrici utili al nostro problema, come l’universalità salvifica dell’Incarnazione del Verbo, la singolarità dell’unione ipostatica, la necessità di non separare la ricchezza (e in qualche modo l’imprevedibilità) dell’azione creatrice e salvifica dello Spirito Santo dalla missione e dal ruolo del Figlio, cui lo Spirito deve necessariamente condurre. Il rapporto con le religioni viene allora solitamente inquadrato, non senza un comprensibile sforzo, in ciò che la teologia chiama “cristocentrismo inclusivista”, il tentativo cioè di rileggere implicitamente le altre religioni alla luce del mistero di Cristo (può vedersi al riguardo il documento della CTI, Il cristianesimo e le religioni, “La Civiltà Cattolica” 148 (1997), I, pp. 146-183). Si tratta però di una prima approssimazione, in quanto il tema della vita nel cosmo scavalcherebbe l’unità del genere umano, creato e redento in Cristo, ponendo un problema del tutto nuovo rispetto a quello, ad esempio, della scoperta degli indiani d’America, per i quali Paolo III (1534-1549) non ebbe difficoltà a riconoscere l’appartenenza alla discendenza di Adamo (cfr. DH 1495). Non resta pertanto che avvicinarsi al problema per gradi.

1. Assenza di argomenti pregiudiziali contro l’ipotesi pluralista e ragionevolezza della posizione classica.

Un primo punto fermo è che non vi sono, né da parte degli insegnamenti del magistero della Chiesa, né da parte della riflessione teologica, argomenti pregiudiziali che impediscano di ammettere tale possibilità. La volontà onnipotente e la libertà insondabile di Dio Creatore continuano ad essere un valido argomento in proposito, così come il riconoscimento del valore intrinseco della vita, in special modo della dignità della vita intelligente, ovunque essa si manifesti, partecipazione e riflesso di quella Vita con maiuscola che i credenti sanno risiedere in Dio stesso. A ciò andrebbe aggiunto quanto la tradizione ebraico-cristiana professa circa l’esistenza degli angeli. Questa fede mostra che il senso della creazione non si gioca tutto sul rapporto fra l’uomo e Dio, ma “resta aperto su altre creature” le quali, pur dipendendo da Dio, hanno una storia ed un’economia di salvezza distinta da quella del genere umano. Tommaso d’Aquino, ad esempio, diede ragioni di convenienza per sostenere che il numero degli angeli sarebbe ingentissimo, tale da superare qualsiasi molteplicità materiale (cfr. Summa theologiae, I, q. 50, a. 3).

Ciononostante, la singolarità del genere umano come unica forma di vita intelligente nel cosmo rappresenterebbe per la teologia una soluzione “classica”, che non la obbligherebbe a ri-comprendere un certo numero di aspetti della Rivelazione. Tale soluzione, va osservato, è anch’essa ragionevole, e non può qualificarsi a priori come antiscientifica. Oggi sappiamo che la grandezza dell’universo fisico non risponde ad una sorta di “ridondanza”, ma è legata ad una necessità di origine antropica: ai lunghi tempi necessari per produrre nelle stelle gli elementi chimici indispensabili alla vita corrispondono inevitabilmente anche degli enormi spazi (ASTRONOMIA, III; ANTROPICO, PRINCIPIO).

Come conseguenza ne risulta indebolito sia l’argomento probabilistico che parte dalla constatazione della grandezza del cosmo, ma anche l’argomento teologico sulla convenienza che molteplici esseri intelligenti siano creati per dare gloria a Dio in regioni in cui non potrebbe farlo l’uomo. In un universo in espansione – l’unico che può condurre alla formazione di strutture e di ambienti adeguati alla vita – il lungo tempo richiesto dall’evoluzione biologica si traduce necessariamente in un grande spazio ed in una grande quantità di materia formata o in formazione. In un simile universo è tanto ragionevole ammettere la simultanea comparsa di molte civiltà quasi coeve, come quella di una sola.

La teleologia messa in luce dal principio antropico non offre conclusioni sulla molteplicità o sulla singolarità della vita intelligente, ma solo sui tempi necessari alla sua comparsa e sul legame non accidentale con la struttura dell’universo nel suo insieme. Non conoscendo le “ragioni ultime” dell’origine della vita, la scienza non può sapere se essa risponda ad un imperativo categorico o se sia un evento altamente improbabile: dunque, anche equazioni come quella di Drake, sono geneticamente destinate a computare condizioni “necessarie”, ma non “necessarie e sufficienti” alla presenza della vita intelligente. In assenza di altri dati che richiedano nuove soluzioni in un quadro interpretativo più ampio, una teologia che volesse conservare la sua soluzione “classica” non potrebbe per questo essere accusata di irragionevolezza.

2. Universalità dell’immagine di Dio uno e trino in un contesto cosmico.

Come secondo punto fermo va segnalato che l’immagine di Dio consegnata dalla tradizione ebraico-cristiana non è geocentrica, né antropocentrica: essa si rivela universale e trascendente, soggetto di una onnipotenza creatrice la cui portata è senza dubbio di ordine cosmico e certamente non locale. Ma nel contesto della vita libera e cosciente, anche l’immagine trinitaria si presenta con i caratteri dell’universalità: lo sono l’esistenza di una paternità e di una filiazione, la cui intelligibilità è legata proprio al processo generativo comune ad ogni vivente, e lo è l’esistenza di un Amore-Dono, lo Spirito Santo, la cui comprensione rimanda all’idea di comunione, di altruismo e di donazione, che non è certamente estranea alla dinamica di una vita cosciente.

Ciò basterebbe a scartare l’opinione che la teologia cristiana, per aprirsi alla possibilità di una vita intelligente nel cosmo, debba inevitabilmente accantonare la propria immagine di Dio, disponendosi così ad una sorta di nuova “rivoluzione copernicana”, che induca le civiltà dell’universo (analogamente a quanto alcuni, come John Hick, vorrebbero facessero oggi le diverse religioni della terra) a cessare di ruotare attorno al proprio Dio, per cominciare tutti insieme a ruotare attorno ad un Dio comune, ma sconosciuto.

Ogni credente in Dio vedrebbe un eventuale incontro con una civiltà non terrestre come un’esperienza certamente straordinaria; sarebbe tendenzialmente incline a manifestarvi un senso di rispetto, a riconoscervi un’origine comune, una possibilità nuova di comprendere meglio i rapporti di Dio con l’intero creato. Un simile incontro, e forse il successivo dialogo, non potrebbero non avere una dimensione “religiosa”, nel senso più naturale del termine. Allo stesso tempo, ci pare importante segnalare che un credente rispettoso delle esigenze della ragione scientifica non sarebbe per questo obbligato a rinunciare alla propria fede in Dio solo sulla scorta di nuove informazioni di carattere religioso provenienti da civiltà extraterrestri.

La ragione lo spingerebbe in primo luogo a sottoporne il contenuto ad un’analisi di ragionevolezza (analogamente a quanto siamo abituati a fare sulla terra); una volta verificatane in qualche modo l’attendibilità, dovrebbe sforzarsi di comporre tali nuove informazioni con le verità che egli conosce e crede sulla base della rivelazione del Dio uno e trino, operando una rilettura inclusiva dei nuovi dati, analoga a quella che si applicherebbe in un ordinario dialogo interreligioso.
In senso più generale, un simile contatto non può essere considerato una sorta di verifica della validità della coscienza religiosa dell’umanità.

Da parte loro, gli umani non hanno dato alcuna informazione di tipo religioso nei “messaggi in bottiglia” che sono stati inviati al di là del sistema solare (vedi supra, I, n. 1), nonostante la gran maggioranza dei terrestri credesse nell’esistenza di un Creatore del cielo e della terra. In una prospettiva materialista, l’idea che un nostro ingresso nel Club delle Galassie libererà l’uomo da una fase religiosa infantile, rendendoci definitivamente consapevoli del nostro vero posto nell’universo, può essere suggestiva, ma è in realtà assai ingenua. La maggior parte dei grandi temi esistenziali, e quindi religiosi, della vita umana sulla terra, non verrebbero risolti dagli amici di questo Club.

3. Una capitalità cosmica, e perciò creaturale, del mistero di Cristo.

Se il mistero dell’Incarnazione rimanda ad una capitalità cristocentrica e non geocentrica, allora esso può essere esplorato ed espresso con categorie cosmiche ed universali, non antropologiche. Il terzo punto fermo dovrebbe dunque essere, a nostro avviso, il valore rivelativo e salvifico universale, e non solo locale, dell’Incarnazione. La capitalità di Cristo, Dio-uomo, sulle creature angeliche (cfr. Eb 1,3-14 e 2,5-18) andrebbe interpretata come rivelativa della sua capitalità su tutte le possibili creature (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). La grandezza in certo modo infinita dell’unione ipostatica fa sì che anche il sacrificio vicario di Cristo abbia un valore meritorio infinito. Come questo sia applicabile all’intero universo resterebbe per la teologia cristiana un mistero, ma non è moltiplicandolo che se accresce l’efficacia. La celebrazione della santa Messa, ad esempio, applica in tempi e in luoghi diversi i frutti di quel medesimo evento storico, senza moltiplicarlo.

Riteniamo, contrariamente a quanto suggerito da altri autori, che una simile partecipazione di salvezza ed efficacia su un piano cosmico – ove questa fosse necessaria per altri esseri intelligenti e liberi – non possa dipendere né da uno slancio missionario interplanetario, né da una comunicazione mediata (sebbene questi fattori possano e forse debbano operare). Essa potrebbe dipendere solo da un’economia guidata dallo Spirito Santo, anch’essa operante con modalità a noi sconosciute, ma certamente l’unica in grado di assicurarne l’universalità e l’interiorizzazione. Analogamente a quanto avviene nell’economia salvifica terrena, lo Spirito condurrebbe ancora al Figlio e lo renderebbe in qualche modo presente. Il tutto, nella logica convinzione che il Creatore abbia in ogni luogo i suoi modi di farsi riconoscere, e forse anche di farsi presente presso le sue creature.

Sulla storia personale di eventuali esseri intelligenti, responsabili della loro libertà di fronte all’unico Dio, Padre e Creatore di tutti (cfr. Ef 4,6), non possiamo dire nulla. Possiamo però affermare che, in quanto creature, il mistero di Cristo, Verbo incarnato, non è a loro estraneo.

Dio ha assunto in Cristo un natura creata, una volontà ed una libertà finite, facendo propria l’esperienza del limite e della creaturalità e ciò ha un valore che va certamente al di là della creatura “umana” in quanto tale. Ma Cristo ha assunto su di Sé anche la realtà della morte e ne ha rivelato la non ultimità, prefigurando nel suo corpo risorto un destino che appartiene all’intero universo e non solo all’uomo.

Ma quale risonanza avrebbe questo per altre creature i cui rapporti originari ed originanti con Dio noi ignoriamo? In una prospettiva in cui la morte biologica fosse una conseguenza che dipende in modo diretto, totale ed esclusivo dal peccato originale di Adamo, non avremmo più nulla da dire e resteremmo comunque in attesa di un chiarimento teologico che migliori la nostra comprensione delle cose ( CREAZIONE, VI.2). In una prospettiva che lasciasse invece un maggiore spazio di manovra, il termine del ciclo vitale di un essere creaturale, non necessariamente legato ad un peccato d’origine, potrebbe essere visto come il luogo dell’accettazione cosciente della sua creaturalità e finitezza, il luogo di un’esperienza suprema, alla quale la morte della vera umanità di Cristo sulla croce avrebbe allora ancora molto da dire, così come la sua resurrezione.

Sul grande tema del rapporto fra peccato e libertà, coinvolgendo la storia personale di altri esseri, come già segnalato, non è possibile formulare ipotesi deduttive. Negli unici due casi che la teologia conosce per induzione, il genere umano e le creature angeliche, questa associazione si è sempre verificata. Se il peccato non appartiene certo alla perfezione della libertà, la possibilità di incorrervi pare esserne almeno una condizione, ed anche questo contribuirebbe a rendere la redenzione cristiana meno estranea ad eventuali creature libere che non discendano dal primo uomo.

Non riteniamo che il dibattito sulla vita extraterrestre costituisca per la teologia cristiana il luogo determinante della sua verifica critica, sebbene rappresenti uno straordinario stimolo ad accrescere l’intelligibilità di alcune sue formulazioni.

Esistono, come segnalato, alcuni punti fermi ed alcune piste di riflessione. Ed esiste una soluzione “classica”, quella dell’unicità del genere umano, che in assenza di prove stringenti non parrebbe corretto considerare obsoleta semplicemente sulla base della apertura di orizzonti recata dalla cosmologia contemporanea. Una soluzione diversa richiederebbe un lavoro di ricomprensione che, analogamente a quanto avviene in fisica con le soluzioni quantistiche o relativistiche, sia capace di mantenere molte delle verità contenute nella soluzione classica, rivelandone un ambito più ristretto di applicazione, oppure comprendendole in un contesto più generale. L’ultima parola sulla questione della vita extraterrestre non spetta alla teologia, ma alla scienza. L’esistenza di vita intelligente in pianeti diversi dalla terra non viene né richiesta né esclusa da alcun argomento teologico: alla teologia, come a tutta quanta l’umanità, non resta che attendere.

Don Giuseppe Tanzella-Nitti
Docente alla Pontificia Università della Santa Croce

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