Il telescopio orbitante dell’ESA Herschel ha scoperto che alcune molecole fondamentali per la creazione dell’acqua resistono ad ambienti ostili come quelli delle nebulose planetarie. Non solo: in due studi è stata avanzata l’ipotesi che la radiazione UV possa promuovere la loro creazione invece che distruggerle
Anche dalle stelle può nascere la vita. È questo quanto avrebbe scoperto un gruppo di astronomi i quali hanno rilevato che molecole vitali e necessarie per la creazione dell’aqua esistono anche dentro le stelle morenti. La scoperta è stata realizzata grazie al supporto dell’osservatorio orbitante Herschel, andato in pensione giusto un anno fa esatto, ma che ancora ci regala dati preziosi. “Herschel ha trovato segni della presenza di acqua in tutto l’Universo, dalle nubi di formazione stellare alla cintura di asteroidi nel nostro Sistema solare”, ha detto Göran Pilbratt, scienziato del progetto Herschel dell’ESA. “Adesso abbiamo anche scoperto che le stelle come il nostro Sole potrebbero contribuire alla formazione dell’acqua nell’Universo”.
Quando stelle simili al nostro Sole si avvicinano alla fine della loro vita attraversano un processo di cambiamento che le porta a diventare delle dense nane bianche. Inizialmente le stelle, come il nostro Sole, morenti lasciano andare nello spazio gli strati più esterni del loro caldissimo guscio (trasformandosi in una gigante rossa), creano successivi meravigliosi involucri di polvere e gas noti come nebulose planetarie, prima, appunto, di addensarsi in una nana bianca. Le nebulose planetarie hanno un nome che potrebbe trarre in inganno, perché in realtà non hanno nulla a che fare con i pianeti. L’astronomo William Herschel, nel 18° secolo, le chiamò così perché ai suoi occhi (e al suo telescopio) sembrarono strani oggetti circolari e sfocati, proprio come i pianeti del Sistema solare. Dopo la sua scoperta, il telescopio spaziale a lui dedicato è stato utilizzato proprio per lo studio di stelle e oggetti celesti, inviando sulla Terra (dal 2009 al 2013) una quantità enorme di dati che ancora oggi sono in fase di analisi.
È proprio tra queste informazioni che da tempo si nascondeva l’importante scoperta che ha poi condotto a due studi, uno guidato da Isabel Aleman, dell’Università di Leida (Olanda), e l’altro firmato da Mireya Etxaluze, dell’Istituto delle scienze dei materiali di Madrid (Spagna). Come le drammatiche esplosioni di stelle più massicce, la creazione di nebulose planetarie arricchisce anche l’ambiente interstellare locale con elementi da cui nascono le successive generazioni di stelle. La differenza sta nel fatto che mentre le supernovae sono in grado di forgiare gli elementi più pesanti, le nebulose planetarie contengono una grande percentuale di elementi ben più leggeri come il carbonio, l’azoto e l’ossigeno, cioè il risultato della fusione nucleare nella stella madre.
Una stella come il nostro Sole brucia l’idrogeno all’interno del suo nucleo per miliardi di anni (fusione nucleare). E, proprio come quando si guida un’automobile, i problemi iniziano quando il carburante comincia a scarseggiare; mentre, però, a noi terrestri basta un rifornimento dal benzinaio e siamo di nuovo in strada, per le stelle non esiste una stazione di servizio che fornisce un nuovo carico di idrogeno. La stella si gonfia raggiungendo lo stato di gigante rossa: diventando sempre più instabile sparge i suoi strati esterni nello spazio formando una nebulosa planetaria all’esterno e lasciando all’interno una caldissima nana bianca, che emette radiazioni ultraviolette.
Proprio queste radiazioni possono distruggere le molecole che erano state precedentemente espulse dalla stella e che sono legate in ciuffi o anelli di materiale nella periferia della nebulosa planetaria. Si è sempre ipotizzato che la radiazione limitasse, inoltre, la formazione di nuove molecole in queste aree così bombardate. I due studi, però, hanno smentito le precedenti ipotesi affermando, al contrario, che le molecole vitali sembrano adattarsi perfettamente a un ambiente così ostile come quello descritto. La molecola studiata è OH+, una combinazione di singole particelle cariche di ossigeno e idrogeno.
Nello studio olandese sono state analizzate 11 nebulose planetarie e questa molecola è stata trovato solo in tre di esse: ciò che le distingue è che ospitano stelle più calde, con temperature superiori a 100milaº C. “Pensiamo che un indizio importante sia la presenza dei ciuffi densi di gas e polveri illuminati da raggi X e UV emessi dalla caldissima stella centrale” , ha detto l’autrice dello studio, la dottoressa Aleman. Sono proprio queste “radiazioni ad alta energia che interagiscono con i ciuffi di per innescare reazioni chimiche che portano alla formazione delle molecole“.
Un secondo studio, quello spagnolo, si è concentrato, invece, sulla nebulosa Elica, una delle più vicine al Sistema solare a una distanza di circa 700 anni luce. La stella centrale è la metà rispetto alla massa del Sole, ma brucia a temperature ben maggiori (circa 120mila° C). Il guscio esterno ormai espulso è noto tra gli studiosi perché contiene una vasta gamma di molecole. Il compito di Herschel è stato quello di mappare la presenza di molecole importanti per la vita che ha scoperto essere più abbondanti dove precedentemente erano state espulse molecole di anidride carbonica poi distrutte dalle radiazioni UV della stella centrale. Una volta che gli atomi di ossigeno sono stati liberati dal monossido di carbonio, sono liberi per unirsi alle molecole di idrogeno, rafforzando ulteriormente l’ipotesi che la radiazione UV può promuovere la loro creazione.
I due studi sono i primi a affermare che le nebulose planetarie proteggono questa molecola necessaria per la formazione dell’acqua, anche se resta da vedere se le condizioni sarebbero effettivamente adatte. La vicinanza della nebulosa Elica “significa che abbiamo un laboratorio straordinariamente vicino a noi per studiare nel dettaglio la chimica di questi oggetti e il loro ruolo nella formazione di nuove molecole fondamentali”, ha detto Mireya Etxaluze.[fonte]